Читать «Сибирское воспитание» онлайн - страница 2

Николай Лилин

— Che succede, quanto abbiamo dormito? — ho chiesto a Mosca con la voce sfinita.

— Abbiamo dormito un cazzo, fratello… E mi sa che dovremo stare svegli ancora per un bel po’ di tempo.

Ho chiuso la faccia tra le mani, tentando di raccogliere le forze per alzarmi e cominciare a ragionare. Avevo bisogno di dormire, sentivo addosso una stanchezza tremenda. La mia tuta era sporca e umida, il giubbotto puzzava di sudore e di terra fresca, ero ridotto a uno straccio.

Mosca è andato a svegliare anche gli altri:

— Dài, ragazzi, si parte subito… C’è bisogno di noi.

Erano tutti disperati, non volevano alzarsi. Ma lamentandosi, imprecando, si sono messi in piedi.

Il Capitano Nosov stava girando con la cornetta all’orecchio e un fante lo seguiva come un animale domestico, con la radio da campo nello zaino. Il Capitano si arrabbiava, continuava a ripetere a chissà chi, via radio, che avevamo fatto il primo riposo in tre giorni, che eravamo stremati. Tutto inutile, perché a un certo punto Nosov ha detto con un tono che ricordava il suono del tip tap:

— Si, compagno Colonnello! Confermo, ordine ricevuto!

Dunque, ci mandavano di nuovo in prima linea.

Non volevo neanche pensarci.

Sono andato verso un bidone di ferro pieno d’acqua. Ho messo le mani dentro: l’acqua era bella fresca, mi ha dato un leggero brivido. Allora ho infilato tutta la testa dentro il bidone, sott’acqua, e l’ho tenuta un po’ li, trattenendo il respiro.

Ho aperto gli occhi dentro il bidone e ho visto buio completo. Mi sono spaventato e ho tirato fuori immediatamente la testa, facendo un respiro profondo.

Il buio che avevo visto nel bidone mi aveva fatto un brutto effetto, mi era sembrato che la morte poteva essere proprio così — buia e senz’aria.

Stavo sopra il bidone, guardavo ballare sull’acqua il riflesso della mia faccia e della mia vita fino a quel momento.

Il cappello a otto triangoli e il coltello a scatto

In Transnistria febbraio è il mese più freddo dell’anno. Tira un vento forte e l’aria diventa pungente, pizzica sulla faccia; tutti quelli che escono per strada si coprono come mummie, i bambini sembrano bambolotti, impacchettati in mille vestiti, con le sciarpe fin sugli occhi.

Di solito nevica tanto, le giornate sono corte e il buio comincia a scendere sulla terra molto presto.

E in quel mese che sono nato io. Ero così malmesso che nell’antica Sparta senza dubbio mi avrebbero eliminato per via del mio stato fisico. Invece mi hanno messo in un’incubatrice.

Sono nato di otto mesi, uscendo con i piedi, e avevo un sacco di altre irregolarità. Un’infermiera gentile ha detto a mia mamma che doveva abituarsi all’idea che mi restava poco da vivere. Mia mamma piangeva, scaricando in una macchinetta il suo latte per me, da portarmi nell’incubatrice. Per lei non dev’essere stato un momento allegro.

Beh, a partire dalla mia nascita, io forse per abitudine ho continuato a procurare vari dispiaceri e togliere parecchie possibilità di vita allegra ai miei genitori (anzi, a mia mamma, perché mio padre in realtà se ne fregava di tutto, faceva la sua vita da criminale, rapinava banche e stava tanto tempo in galera). Non mi ricordo nemmeno quante ne ho combinate, da piccolo. Ma è naturale, sono cresciuto in un quartiere malfamato, proprio nel posto dove negli anni Trenta si sono sistemati i criminali espulsi dalla Siberia. La mia vita era lì, a Bender, con i criminali, e il nostro criminalissimo quartiere era come una grande famiglia.